Come accade a ogni ricorrenza della data odierna, ci si interroga sul senso di quanto avvenne, in quel 1992. Le parole non saranno mai abbastanza, anche perché ogni volta emergono trame inedite, particolari non conosciuti. Quelle della strage di Capaci - seguita a breve distanza da quella di Via D'Amelio - sono ferite che ogni cittadino onesto porterà con sé. Perché la mafia a quei tempi voleva colpire lo Stato e farlo mettendo a rischio l'incolumità dei suoi esponenti più autorevoli.
Anche a livello europeo si ripropone un problema simile e qui i passi da compiere sono molti: non esiste infatti, nell'Unione europea ad eccezione che nel nostro Paese, il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Peraltro, prima del 1982, nemmeno in Italia si erano ancora delineate in maniera chiara le caratteristiche del fenomeno. Un fenomeno che è andato del resto soggetto a dei mutamenti. Dopo le stragi e la destabilizzazione del 1992 - a cui corrispondeva il tracollo degli equilibri politici di un quasi cinquantennio - le mafie hanno cambiato strategia. Puntano soprattutto sulla corruzione, sul riciclaggio, sull'imprenditoria. Hanno capito che, piuttosto che uccidere, è più vantaggioso condizionare l'economia. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha descritto questo fenomeno e l'esistenza di numerose zone d'ombra; le sue parole di questi giorni invitano a riflettere.
Non si deve però per questo smettere di avere fiducia. Le forze sane, alla fine, prevalgono, perché il mafioso usa il potere dell'intimidazione, della violenza e, verrebbe da dire, proprio della malvagità, ma dimentica che questo suo modus operandi prima o poi si trasformerà in un boomerang. Studiando il fenomeno, noto che molti boss vengono prima o poi arrestati, che pochi fanno la bella vita che si pensi. Non conviene delinquere. Coloro che lo fanno, sono i primi a pagarne il prezzo.
Essere malviventi - specialmente se ultimo anello della catena - non ha proprio senso e c'è chi ritiene che, nei decenni scorsi, si siano commessi errori proprio nel modo di intendere la società, errori che hanno legittimato un certo modo di fare. Vi racconto: questa estate, ho seguito il festival "Insegui l'arte", di Badolato, splendido borgo in provincia di Catanzaro. Si è trattato di una rassegna di eventi dedicati alla cultura nelle sue varie forme: scrittura, fotografia, cinema e non solo. Ospite tra i più gettonati, l'ing. Domenico Gangemi, detto Mimmo. Parliamo di uno degli autori calabresi attualmente di maggiore successo, che ha scritto romanzi sulla 'ndrangheta. Lo considero un collega, in quanto sul tema anch'io ho pubblicato un lavoro del genere, che si intitola "Badolato-Dublino, la rosa dei venti". Ebbene: contrariamente all'aria di disfatta che spesso anima questi discorsi, sosteneva che la Calabria sta vincendo la battaglia contro la realtà criminale locale. Sosteneva che i passi in avanti compiuti siano notevoli e che ciò sia anche frutto di una vivacità culturale che sta attraversando questa regione. Perché forse non tutti lo sanno, ma ci sono molti autori che scrivono di 'ndrangheta e immaginano la sua dissoluzione, specialmente in una regione che, se libera da questo condizionamento, offrirebbe molte opportunità in più. Nel descrivere però l'operazione culturale dei decenni precedenti, Gangemi sosteneva che l'errore del passato fosse stato quello di legittimare la 'ndrangheta: durante le processioni nei paesi della Calabria, infatti, nemmeno troppo tempo fa era abitudine far portare la statua del santo ai ragazzi di famiglie 'ndranghetiste, quasi come se fosse un simbolo distintivo, un merito. Si è sbagliato, sostiene Gangemi e come dargli torto ... La 'ndrangheta è espressione di un modo di fare sbagliato e aggiungo, alla fine anche perdente. Il delinquente infatti ottiene un facile successo, ma presto o tardi si renderà conto di essere la pedina di un sistema. Magari sarà arrestato e non parlerà, ma non è detto che la sua organizzazione sarà ancora interessata a difenderlo. Bene: se tutti i "picciotti" tenessero conto di ciò, le mafie, forse, sarebbero delegittimate. Di certo, a mio avviso, sarebbero depotenziate.
Il problema di ieri e di oggi è continuare a indagare sui capi: Matteo Messina Denaro, per esempio. Già il cognome rende l'idea. Non deve essere facile per chi è in prima linea portare avanti queste indagini. Però, per sconfiggere le mafie, bisogna attaccare la cupola (o le cupole?).
Concludo sostenendo che, per l'idea che mi sono fatto dei nostri eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è mia opinione che fossero persone con un senso delle indagini non comune, però che in fin dei conti non si aspettassero dagli italiani - e anche dagli europei - troppi applausi o riconoscimenti. Volevano più che altro che il nostro fosse un Paese giusto, onesto, meritocratico, al passo con le democrazie europee, dove la società è sana e corregge, previene certi comportamenti, dove non debbano esistere aree in cui, vivendo da onesti, si debba temere per la propria incolumità.
Questo è il mio omaggio agli eroi di Palermo. Grazie.
Post scriptum. Allego qualche mio lavoro già realizzato sul tema della lotta alla mafia:
Europa unita contro la criminalità, intervista al prof. Antonio Nicaso pubblicata su Antimafia Duemila (tratta da lindro.it), 17 novembre 2016
Per un’Europa dei diritti, bisogna anticipare le mafie, intervista a Luciano Violante pubblicata su "L'Indro", 23 maggio 2017
Riciclaggio: le modalità operative nella UE, intervista a Ciro De Lisi, Generale della Guardia di Finanza pubblicata su "L'Indro", 13 marzo 2018
Europa, armi spuntate contro le mafie: manca il coordinamento, articolo pubblicato su "Il Dubbio", 19 dicembre 2019